Sabato, 08 Aprile 2017 09:59

LA SCUOLA, VISTA DAL DI DENTRO

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Mi è stato chiesto di scrivere un breve articolo sulla scuola dal titolo “Qual è il senso della scuola oggi”.

Ho incautamente accettato... 

di Giorgio Pantanella

Mi è stato chiesto di scrivere un breve articolo sulla scuola dal titolo “Qual è il senso della scuola oggi”.

Ho incautamente accettato, rendendomi conto subito dopo che mica era una cosa semplice tenendo conto anche del poco spazio datomi a disposizione. Ma ormai avevo dato la parola, per cui la mente ha cominciato a riempirsi di pensieri sulla scuola che si aggiungevano e mescolavano a quelli che quotidianamente un insegnante si porta già dentro. Mi sono chiesto: da dove cominciare?

Dalla politica che non ha il polso della reale situazione della scuola oggi e propone cambiamenti senza un vero progetto e che spesso non riescono a dare speranza agli addetti ai lavori?

Oppure ripescare la vecchia (ma ancora attuale) disputa sulle finalità della scuola, se debba istruire o educare, favorire l’apprendimento di nozioni e di conoscenze tramite un insegnamento teorico-pratico o aiutare l’alunno ad acquisire gli strumenti per la costruzione della sua identità così che egli possa scoprire se stesso?

Potrei mettere il dito nella piaga della burocratizzazione della vita scolastica che ormai si dibatte in una giungla di sigle (PTOF, PECUP, PNSD, MOF, RAV, OSA, ecc. ed è meglio che mi fermi qui…), circolari, riunioni, incontri, corsi d’aggiornamento su conoscenze, abilità, competenze, assi culturali.

O dovrei concentrarmi sul ruolo dei docenti, con un’età media sempre più alta e sempre più lontani da un mondo adolescenziale che cambia in maniera vertiginosa?

Forse meglio parlare di didattica, tra chi ritiene sempre valido il vecchio metodo lezione frontale-verifica-voto e chi si lancia in sperimentazioni dai nomi accattivanti (e in inglese, così fa meno provinciale, no?) come cooperative learning, flipped classroom, learning by doing, problem solving, business game, project work…?

Oppure parlare di quei genitori che hanno rinunciato al loro ruolo di protagonisti del conflitto educativo necessario alla crescita dei loro figli, che invece difendono a spada tratta quando si tratta di contestare valutazioni negative e sanzioni disciplinari? O di quell’altro tipo di genitori che non ritengono importante seguire il percorso scolastico dei loro figli e per anni restano perfetti sconosciuti ai docenti?  

O dovrei parlare dei ragazzi, che dovrebbero essere i veri protagonisti dell’esperienza scolastica che invece vivono con sufficienza, se non spesso con fastidio e noia?

 

E allora mi sono detto che no, l’argomento era troppo vasto per poterne scrivere in breve e mi è venuta così l’idea di lasciar la parola ai miei alunni e di girare a loro la domanda che mi era stata posta: “Qual è per te il senso della scuola?” Così ho chiesto a diverse classi (all’incirca 150 studenti) di spedirmi via mail le loro risposte. Ne ho ricevute tre. Ma dovevo immaginarmelo; se per loro stare a scuola non è motivo di interesse figurarsi il parlarne.

Di queste tre risposte una, che mi è arrivata da una classe quarta,  merita di esser pubblicata (le altre due sono molto sintetiche e “scolastiche”) perché potrebbe comunque far riflettere chi la leggerà, sia esso un genitore, un docente o un alunno. Magari qualcuno potrebbe aver voglia di rispondere o di dire la sua. Sarebbe interessante.

 LA SCUOLA CHE CI MERITIAMO. MA NON QUELLA DI CUI ABBIAMO BISOGNO

 Essere uno studente italiano nel 2017

 Non è facile essere studenti, anzi, non è facile essere adolescenti proprio. È un periodo incasinato dove sei pieno di dubbi, inizi a pensare un po’ al futuro, a pentirti di quello che hai fatto in passato e inizi a sentire un po’ più da vicino l’odore delle responsabilità dell’età adulta.

Ma questo non ci giustifica, ci stiamo facendo fregare.

Diciamocelo, la scuola non è bella; ognuno ci sta perché deve, che sia perché a fine mese prende uno stipendio o perché dopo cinque anni prende un pezzo di carta con scritte due righe, ma questo non è abbastanza: per quanto possa sembrare assurdo stiamo anche peggiorando!  Quando ci mettono davanti abbassamenti di già drasticamente bassi obiettivi didattici non diciamo niente che così si fatica di meno; quando si bloccano i programmi per mandarci a fare 400 ore di stage obbligatorio non retribuito, con l’illusione che faciliti l’ingresso nel mondo del lavoro, ce lo facciamo andare bene (che poi gli stage li faranno perlopiù quelli che hanno l’aggancio, gli altri si arrangeranno, proprio come nel mondo del lavoro vero).

Tutto questo ormai è successo e da qui non si scappa, ma per me c’è ancora speranza per uscire da qua messi un po’ meglio, perché non dico che dobbiamo essere scienziati, ma nemmeno fessi. Le soluzioni che mi vengono in mente sono due, e non è che abbia avuto bisogno di pensarci molto: la prima è il farci sentire, rischiare il dissenso degli altri e chiedere di studiare in un ambiente più stimolante. Questa mi rendo conto che è difficile, è una cosa che io stesso mi guardo bene dal fare da solo, dopotutto sono uno che fa una riflessione in un testo anonimo davanti ad un computer, mica Ernesto Che Guevara, ma se si organizzasse qualche manifestazione, chissà. L’altra invece è quella facile, che si può fare anche da soli, ed è il non accontentarsi. Mi viene detto che con la media del sei sono comunque ammesso all’esame di maturità; si fottano io voglio comunque puntare al sette o all’otto. E farlo nella scuola come in qualsiasi altra situazione, perché guardare un film quando si può guardare un bel film? Perché leggere un libro quando si può leggere un bel libro? Secondo me con questo approccio non solo si vive meglio, ma si può riuscire a crearsi una passione e un orizzonte culturale e, forse, ad uscire da questo postaccio con qualcosa di più di un pezzo di carta con su scritte due righe.

 Da uno che non ha voglia ad altri che non hanno voglia, e nemmeno qualcuno che provi a fargliela venire.

Letto 920 volte Ultima modifica Lunedì, 10 Aprile 2017 19:52
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