Stampa questa pagina
Domenica, 22 Ottobre 2017 19:10

FORESTA

Scritto da
Valuta questo articolo
(1 Voto)

Portava un pigiama beige: era sporco quanto lui che lo indossava.

Aveva gli occhi cisposi e appesantiti dai neurolettici.

Non c’era niente, più niente in lui che mi riportasse l’amico che passeggiava la domenica per il rettifilo del paese, con i capelli nerissimi alla rockabilly.

Quanto può essere transumante e di passaggio l’entità che noi ostinatamente crediamo familiare e duratura, che continuamente chiamiamo io.

Il suo precipitava delirante, a dispetto della camicia di forza con cui glielo legavano, perché –e sì!– aveva appena preso a testate un muro, ferendosi in profondità un sopracciglio.

Dal mio canto, cercavo di stringere il mio io, convincerlo a non lasciarmi proprio allora da sola di fronte a quello spettacolo di pena e desolazione, che mi sgomentava.

Ironia della sorte: di fronte al reparto di neuropsichiatria vegetava rigoglioso un esempio di foresta quasi equatoriale; la facevano da padroni i banani, i rododendri e altri alberi col fusto dritto e sovraimpresso da vegetazione parassitaria ed epifitica: era umida e calda quell’imitazione venezuelana. Non capivo se avesse la funzione di prepararti allo shock degli abitanti del reparto –visto che dovevi attraversarlo per forza quel tratto di menzogna– o curartene dopo avere visto quel carcere autorizzato. L’effetto era comunque di straniamento e di espropriazione: che volessero sovrappopolare la città anche dello squilibrio dei visitatori? Non era una congettura carina, ma chiunque avesse deciso di duplicare i tropici per i matti lo era ancora meno.

Sbavava e deglutiva, provando a pulirsi senza successo alcuno; dubitai che gli riuscisse di controllare intestini e vescica. Non volle essere abbracciato per un ultimo appello al decoro, per vergogna.

Tornai a casa sconvolta e passai la notte insonne.

Riuscii a stento ad andarci di nuovo. Lo trovai meglio, invecchiato ma meglio.

Fu quando riattraversai quella fitta boscaglia vietnamita che vidi un uccello sottile, elegante, variopinto: aveva lasciato vuoto il lerciume del pigiama beige e andava a cantare le sue armonie, là, in quella pazzesca concretezza vegetale.

Nessuno lo vide e lo sentì, tranne me: mi fermai:

piccoli frammenti di matta bellezza avevano originato quella bellezza piumata, perché quella foresta pluviale non era –ora lo so–  che la fertile metamorfosi della pazzia.

Letto 1224 volte
Effettua il Login per inserire i tuoi commenti